R I V I S T A letteraria N U G A E

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domenica, febbraio 28, 2010

Leonardo Da Vinci era arabo?



Leonardo Da Vinci era arabo.

Lo dimostrano un'impronta digitale,
una notizia d'epoca e un ritratto cinquecentesco appena scoperto

Milano, 28 febbraio 2010. "Leonardo Da Vinci, giudicato 'il più grande italiano di tutti i tempi' nel recente format su Raidue, era arabo". Lo rivela uno studio condotto da Alfred Breitman e Roberto Malini del Gruppo Watching The Sky, associazione impegnata nelle ricerca di opere d'arte perdute e delle tracce biografiche sconosciute dei grandi artisti del passato. "Lo affermiamo con grande convinzione," spiegano Breitman e Malini, "in base ad alcune evidenze. La più importante è costituita dal ritrovamento di un'impronta digitale di Leonardo sul dipinto 'La dama con l'ermellino'. Secondo l'antropologo Luigi Capasso la tipologia dell'impronta è caratteristica del 60% degli individui provenienti dai paesi arabi. L'ipotesi di un origine araba del maestro non è tuttavia nuova. E' risaputo che il nome della madre di Leonardo, Caterina, era attribuito con frequenza alle schiave arabe acquistate in Toscana e provenienti da Istanbul". Anche il professor Alessandro Vezzosi, celebre studioso del Rinascimento, è convinto dell'origine araba dell'autore della Gioconda: "Possediamo documenti che suggeriscono l'origine orientale di Leonardo Da Vinci".
"Anche il giovane Salai, pupillo di Leonardo," continua Watching The Sky, "sembrerebbe, dalle descrizioni che possediamo, un ragazzo arabo, con i capelli ricci, la pelle bruna e gli occhi scuri vivacissimi". Breitman e Malini, a questo punto, estraggono da un cassetto un bel disegno a sanguigna su un foglio di carta antica. "Questo ritratto virile del primo Cinquecento è di scuola leonardesca," spiegano, "e rappresenta un viso che possiede molte similitudini con i ritratti noti del volto di Leonardo Da Vinci. La sua particolarità è che indossa un copricapo di foggia araba. Si può ipotizzare che si tratti di un ritratto del maestro eseguito da un suo allievo che conosceva le vere origini del 'più grande italiano di tutti i tempi'. La notizia, preziosa per la Storia dell'Arte, è anche un monito per coloro che difendono a spada tratta le frontiere geografiche e culturali del nostro Paese, senza capire che il progresso sociale, morale e intellettuale di un popolo può avvenire solo grazie al contributo di altre esperienze e tradizioni".

Nelle foto sopra, da sinistra: il ritratto cinquecentesco scoperto da Watching The Sky; la "Dama con l'ermellino"; un celebre autoritratto di Leonardo da Vinci.

mercoledì, febbraio 10, 2010

Sogni precari confusi disillusi

Un frammento dalla piece "Sogni precari confusi disillusi", di Mariano Lizzadro. Regia di Lucio Corvino. Selezione musicale di Lucio Corvino e Mariano Lizzadro. Con Mauro Savino.
"Sogni precari confusi disillusi" si iscrive nel percorso di ricerca intrapreso da Mariano Lizzadro in campo teatrale a partire dalle varie rappresentazioni di "Sanbasiluc - Viaggi nei paraggi", spettacolo proposto per la prima volta nel 2006. In "Sogni confusi precari disillusi" Lizzadro propone una cifra contenutistica e testuale caratteristica della sua ultima produzione: i temi sociali non vengono dimenticati, ma la dimensione "sospensiva" ed onirica - ambiguamente tesa tra sogno, incubo e realtà - trova qui una sua peculiare accentuazione. Si assiste a cambi di registro e di intenzione senza soluzione di continuità, sicché non esiste un appagamento nella consolazione calderoniana che la vita è sogno, ma un tremore costante dato dalla continua sensazione del non sapersi più: la vita è sogno-incubo e il sogno-incubo è vita. Il precariato di Lizzadro è molto più che lavorativo. Si tratta della presa d'atto di una frammentazione del soggetto inevitabile e con forti rischi di irreversibilità. Tutta la vita è precariato, precarizzazione, lavorio. I nostri tempi hanno solo dato a questo sostrato esistenziale dell'inafferabilità dell'esserci una connotazione socio-culturale prosaica, avvilente e assassina. Assassina della dignità innanzitutto. Il personaggio dello spettacolo non ha la possibilità di auto-progettarsi e di auto-realizzarsi. E' in esilio involontario dal mondo. Dalla vita. Il precariato lavorativo ha fatto degli uomini dei "significanti senza significato", come diceva Levinas che coniò l'espressione per gli internati nei campi di concentramento e per gli analoghi lagher dell'oppressione sociale. Ecco dunque lo sbocco nel piccolo incomprensibile (ma comprensibilissimo) dramma della solitudine indotta dalle proprie condizioni materiali, dopo che per tutta la vita si è studiato per rendersele almeno degne. Ecco dunque l'accentuazione di quella dimensione onirica. In Sanbasiluc, Lizzadro lavorava sulla storia della Storia e sulla parodizzazione del Potere. Qui si occupa dell'Individuo. E l'individuo non ha il sostegno dell'andirivieni delle epoche per rintracciare il senso di una storia vinta o da vincere. Ha solo se stesso. Nella stessa ottica e in una prospettiva di ricerca sul 'testo', Lizzadro spezza, sconnette, assona e dissona, lancia messaggi e li fagocita. Il testo di questo spettacolo, è spesso sganciato, non-immediato, arriva 'dopo'. Il linguaggio, limite per se stesso, viene restituito ad una mimica oscura. Scomoda. Che si sottrae (vedi altri frammenti disponibili su youtube). Vinto e risorgente dal suo stesso inevitabile morirsi. La scena: la regia di Lucio Corvino cambia nel cambiamento. Volutamente qui il personaggio si muove poco. O si muove molto. Macchina da presa di se stesso fissa un confine breve, quello della sua stanza, ma anche quello della sua vita. Che pare inbozzolata, chiusa, rabbiosa senza agitazione: l'oggi ha ucciso la motilità delle emozioni. E' possibile solo lo scoppio o la caduta improvvisa. Il punto non è se ci sia o debba esserci speranza, ma se non esista quasi, ormai, che il suo solo calco negativo. Il sonno stesso viene denudato e diventa risveglio agitato o riflessione: ovvero la sua negazione. Come negato è lo stesso sogno. Lo stesso sognare. Ecco perché il precariato lavorativo è inglobato in quello esistenziale: lo evoca e lo accentua. Difficile quindi stigmatizzare questo lavoro propriamente come teatro sociale. Doveroso accennare qui al luogo di questa rappresentazione. Il Sotteatro, messo a disposizione dalla Compagnia Abito in scena di Potenza, a cui va la nostra gratitudine, ambiente 'breve' figlio delle cantine teatrali degli anni '60, è stato il palco ideale di questo frammento sghembo d'umanità. (by Mariano Lizzadro, nella foto)


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